Quando qualche anno fa ho cominciato a pensare ad un disco come VivaVoce mi sono chiesto come avrebbe potuto prenderla una parte del mio pubblico. So che in molti sono affezionati a quelle che chiamiamo le “versioni originali” delle canzoni che amiamo, anche a me capita a volte con le canzoni degli altri: un certo suono in un punto, una certa inflessione della voce. Qualcosa che è scolpito nella nostra memoria di una giornata passata, di quando magari eravamo molto diversi, più giovani.
Però, però: ho anche pensato che questo nuovo disco non sottrae nulla al passato. Non è come se, diciamo, Picasso si aggirasse di notte a casa di quelli che hanno comprato i suoi quadri e glieli ritoccasse contro la loro volontà cambiando un segno o un colore qua e là, o magari anche solo sostituendogli la cornice. Io non vado a casa di quelli che conservano Rimmel o La donna cannone sotto al cuscino e glieli sostituisco di nascosto: VivaVoce è solo musica in più.
E soprattutto è quello che mi dovevo come artista, visto che ho passato una lunga parte della mia vita a veder cambiare queste canzoni sotto le mie mani e sotto quelle dei musicisti che mi accompagnavano. E questo cambiamento volevo testimoniarlo. (E qui vorrei ringraziarli tutti, questi musicisti, sia quelli che hanno suonato in questo disco sia quelli di cui ho perso le tracce: anche loro, in qualche modo, ci stanno dentro). Questo disco lo dovevo a me, quindi. Ma anche al pubblico che ha il diritto, se vuole, di vedere da che parte sto andando.
Sì, le canzoni cambiano. Un regista che consegna un film al pubblico non può più ritoccarlo dopo dieci anni. Magari può fare un remake, ma stiamo parlando di un’altra cosa. Anche un romanziere o un pittore, come abbiamo visto, devono arrendersi al fatto che dopo aver “fissato” la loro opera in un dato momento non potranno più toccarla. Ma la musica è diversa: Beethoven è diverso se lo dirige Toscanini o lo dirige Von Karajan. La musica non si può chiudere in un museo. Glenn Gould registra dopo vent’anni una nuova edizione delle variazioni Goldberg: un altro pianeta sonoro, un’altra velocità, un’altra marca di pianoforte… si vede che ne sentiva la necessità. Anche lui, si intuisce, lo doveva a se stesso e di conseguenza alla gente che lo ammirava e lo amava.
Ci sono 28 canzoni in questo disco: la più vecchia ha più di 40 anni, la più recente forse 4 o 5. Le ho scelte senza nessuno scrupolo filologico: alcune sono più importanti, altre meno, alcune sono molto famose e altre quasi per niente, alcune sono radicalmente diverse dagli originali (Alice, Celestino, Generale, Per le strade di Roma), altre non sono cambiate molto. Dietro questo lavoro non c’è nessuna coazione a cambiare a tutti i costi le carte in tavola e nessuna voglia di descrivere un percorso minimamente lineare del suo autore.
Su alcune ho dovuto lavorare di più: con Alice non ce l’avrei potuta fare se non avessi avuto l’idea di chiedere a Luciano Ligabue di cantarla con me. L’incontro e lo scontro tra le nostre due voci riporta questa canzone alla contemporaneità, la tira fuori dalla nostalgia: averla suonata in 3/4 invece che in 4/4 l’ha alleggerita parecchio rispetto alla versione originale, che vive di una forza e una grazia formidabile ma che, proprio per questo motivo, non avrebbe retto ad una riedizione che non fosse stata completamente diversa.
Stesso discorso per La donna cannone: l’ho completamente spogliata della ritmica e l’ho affidata a Nicola Piovani perché sapevo che sarebbe rimasto lontano da ogni forma di retorica orchestrale che la melodia insita nel pezzo inevitabilmente avrebbe potuto suggerire. Quindi grazie a Nicola, che non solo sa scrivere la musica ma la sa anche ascoltare.
Generale è una canzone che mi dette molti problemi anche quando la arrangiai per la prima volta, credo nel ’78. Feci una quindicina di versioni e alla fine ne scelsi una a caso per disperazione, anche se alla fine evidentemente non era così male. Qui ho voluto sottintendere (non eliminare!) quel riff un po’ marziale, quasi militaresco, che la gente è abituata ad ascoltare fin dall'inizio. Ho cercato di renderla più domestica, più una canzone di pace che una canzone sulla guerra. Spero di esserci riuscito.
Non posso parlarvi di tutte e 28 le canzoni, ma due parole su quella che chiude il disco sì: l’ho voluta reintitolare Fiorellino # 12&35, come un pezzo di Dylan che molti di voi avrete riconosciuto e dal quale ho prelevato di peso l’arrangiamento (e spero che sarò perdonato per aver cambiato di conseguenza, per ragioni di metrica, due versi del testo). Mi è sembrato giusto, oltre che essermi divertito, finire con un omaggio esplicito ad un grande artista che mi è capitato qualche volta di ascoltare nel corso della mia vita...
E un altro riconoscibilissimo omaggio è la traduzione di The Future di Leonard Cohen. Anche a lui devo molto di quello che so di come si scrivono le canzoni, e non poteva non esserci. Poi ci sono qua e là nel disco altri prelievi e citazioni, ma penso che dovrete trovarveli da soli. Buon divertimento.
Vorrei dirvi un’ultima cosa: sarei felice se metteste in pratica quello che io teorizzo come l'ascolto “distratto”. Mettete su questo disco quando avete tempo, se avete tempo, per il tempo che vi divertirà. Ascoltatelo come sottofondo mentre guidate o date da mangiare ai vostri figli o magari state guardando la televisione. Sentitene solo qualche traccia quando vi va e non a tutti i costi tutte e 28 le canzoni. Non mi offendo.
Grazie!
Francesco De Gregori